Svanita l’euforia e l’incredulità, occorre un’analisi lucida per non incorrere in una facile e sterile esaltazione.
La prima mezz’ora di gioco è stata arrembante. Un pressing altissimo che ha impedito un’impostazione pulita al Genoa. Non era una pressione generica atta a indurre il portatore a effettuare un passaggio sbagliato. Si trattava di un pressing ad alta densità: 2-3 uomini sulla palla per sradicare direttamente il pallone dall’avversario in possesso e 5-6 uomini spesso presenti sulla trequarti avversaria. Atteggiamento tattico da grandissima squadra, o da squadra che non ha più niente da perdere: in ogni caso, atteggiamento tipicamente zemaniano che non è possibile non ricondurre alle sue direttive. I meriti di Zeman proseguono notando le sovrapposizioni costanti dei terzini, più spesso uno solo dei due, arrivati numerose volte sul fondo.
Il Genoa è apparso senza idee, svuotato, incapace se non in rare occasioni di superare quello che, dopo il trentesimo minuto, è sembrata una disposizione accorta ma non rinunciataria. Tale disposizione si configurava nei seguenti termini: difesa appena dopo il limite dell’area di rigore, Bruno davanti alla difesa, una linea a 4 in costante pressione (in fase difensiva si disponevano su una stessa linea: Verre, Memushaj, Benali e Caprari), con Cerri che spesso ha partecipato generosamente ad un disturbo delle linee di passaggio avversarie. Disposizione saggia, a mio avviso. Senza meccanismi collaudati, con uomini non scelti dal boemo e con due allenamenti, sarebbe stato temerario osare una linea difensiva troppo alta. L’importante era non ritrovarsi costantemente in area di rigore a spazzare palloni pericolosi affogando in un effetto trincea.
Dopo il trentesimo minuto il Pescara si è spesso appoggiato al lancio calibrato su Cerri, che ha lavorato di sponda in modo essenziale ed efficace, senza rallentare l’azione, dimostrando un buon controllo di palla e una sensibilità nei piedi non comune da trovare in un centravanti della sua stazza. Troppo insistita per i gusti di Zeman la ricerca di Cerri durante i sessanta minuti seguenti, ma il Genoa si è dimostrato ampiamente spiazzato da questa tattica, difficilmente immaginabile visto lo scarso utilizzo di Cerri in campionato.
Per spiegare la fulminea rinascita del Pescara molti non hanno resistito alla tentazione di chiamare in causa la “magia” e il “mago” Zeman (lo stesso Giuseppe Sansonna, il regista di Zemanlandia, in un articolo appena uscito, parla di Zeman come stregone, del fascino del calcio che sta nella sua magia non raccontabile: http://www.barbadillo.it/63303-calcio-il-regista-sansonna-baggio-zeman-totti-e-leterna-magia-del-football/).
Perché si sente l’esigenza di ricorrere a questo concetto? Dopo il 4-0 il volto di Zeman rimane imperscrutabile, sguardo per terra, la solita capacità atarassica di non farsi fagocitare dall’onda emotiva delle circostanze che lo porterebbe ad un'espressione sguaiata delle proprie emozioni; non si tratta di indifferenza, piuttosto preferisce nutrirsi delle emozioni altrui che le sue squadre stimolano sugli spalti. Il solito marziano rispetto agli altri componenti della panchina che si mettono più volte le mani nei capelli. Zeman è lì dove tutti sono, o è altrove, in una dimensione parallela? Lasciamo da parte l’equivoco dell’“utopia” zemaniana, intesa qualcosa di consolante che non avrà mai luogo: se si trattasse di utopia la figura di Zeman non sarebbe così affascinante per alcuni e non darebbe così fastidio ad altri. Non è un’utopia, è qualcosa di più e allo stesso tempo di meno. Ogni sua ruga del viso segna un solco, uno squarcio che apre ad uno spazio “altro”, poco incline a farsi parola lirica, ma sicuramente reale. La gioia dei tifosi pescaresi passa attraverso quei misteriosi solchi, quel silenzio espressivo che rende spiazzante e spiazzata quella stessa gioia. Il senso di quella gioia sta nel vuoto di quel solco, di quello squarcio, così come il rapporto con la mia figura e il mio corpo passa attraverso quel me stesso che vedo riflesso nello specchio. Mi vedo laggiù in quell’immagine irreale nello specchio, mi vedo dove non sono; ma allo stesso tempo lo specchio restituisce il luogo in cui realmente sono, luogo reale che per essere mostrato deve passare attraverso quell’immagine irreale.
Potremmo definirla una scena di magico realismo, corrente letteraria e artistica del Novecento, di cui fa sicuramente parte Jorge Luis Borges, intellettuale dissidente che condivide con il boemo un certo umorismo surreale. Borges fu maestro nel costruire mondi paralleli, separati e distinti dal nostro, eppure coesistenti con esso. Incredulità e mani nei capelli, dopo un campionato infernale e sfortunato senza una vittoria sul campo; Zeman partecipa al presente pensando al futuro, a come migliorare questa squadra, il maestro-condottiero è necessariamente in discronia con la sua truppa, con la linea quotidiana del tempo, con il fuso orario locale.
Sembra di assistere ad un mondo parallelo in cui tempi e luoghi si incrociano e si sovrappongono. Un gioco allucinatorio mi dà le vertigini: mi sembra di vedere il vecchio Pescara di Zeman, Zampano-Balzano, Caprari-Insigne. I contorni temporali della scena si moltiplicano: sogno di ritrovarmi nel passato durante la cavalcata trionfale del primo Pescara di Zeman; poi mi stordisco con uno schiaffetto per svegliarmi dal sogno ad occhi aperti e mi rendo conto che siamo nel 2016 e Zeman ha sostituito Oddo. Adesso sto meglio, sto rientrando in contatto con la realtà. Ma se non fosse così? Se questa goleada al Genoa fosse il futuro sognato da un me stesso che vive ancora nel vecchio Pescara? Non c’è modo di saperlo, ma bisogna essere artisti carismatici per evocare mondi paralleli in un campo di calcio.
L’arte, scrive Borges, è
un piccolo miracolo, che sfugge, in qualche modo, all’organizzata casualità della storia.
Jorge Luis Borges a 19 anni risiede per qualche tempo a Lugano, attraversa la piazza con suo padre e scopre da un’edicola che la guerra è finita e i tedeschi hanno capitolato. Critico della democrazia di massa, non riusciva ad accettare la riduzione degli individui a variabili statistiche. Se a Lugano Zeman era costretto a lottare per una salvezza molto difficile con mezzi tecnico-tattici così limitati che impedivano di ammirare il solito gioco zemaniano, adesso la salvezza è impossibile, ma la rosa e il livello molto più alti (passaggi a corto-medio raggio che arrivano a destinazione con sorprendente frequenza e velocità adeguata, movimenti tattici di base di giocatori professionisti completamente automatizzati, buoni cross). La situazione in cui si trovano oggi gli ammiratori di Zeman offre l’occasione (con la testa leggera, avendo ormai toccato il fondo a livello di risultati) di poter accogliere vittorie e sconfitte nel loro apparire estetico lasciando alla competizione nevrotica l’assurda abitudine statistica di rivaleggiare per la vittoria e la sconfitta. A questo punto, disse Zeman, se non conta più l’emozione estetica di chi guarda, tanto vale giocare per se stessi, per il risultato, a porte chiuse. Poi si dà il risultato con un comunicato stampa, come si fa con i numeri del lotto. Si fanno uscire e chi ha vinto ha vinto. Abbiamo ancora bisogno di Zeman e della vertiginosa lucidità evocata dalle parole di Jorge Luis Borges, dissidenti eternamente incompatibili con il pensiero unico dominante dello sport-business contemporaneo:
Suppongo anche che il football non interessi affatto alla maggioranza della gente che dice di interessarsene, visto che, se le interessasse, non le importerebbe di chi vince o perde. Che è quello che credo capiti con gli scacchi. Ci sono certe partite di scacchi che sono famose, e non importa molto chi alla fine abbia vinto. Invece trovo persone che mi dicono: “mi piace il football”. Ma poi viene fuori il contrario: quello che vogliono è che vinca la tale squadra o la talaltra, il che mi sembra del tutto estraneo all’idea del gioco in sé. Ho avuto modo di notarlo in occasione di una famosa partita tra Uruguay e Argentina: prima ancora che si giocasse, le persone già parteggiavano per una parte o per l’altra, il che mi sembrò molto curioso, dal momento che come facevano a sapere prima chi avrebbe giocato meglio o peggio, chi sarebbe stato più forte o più abile.
Immagine: Omaggio a Jorge Luis Borges del pittore Guillermo Cuenca