Partecipa a Pescara News

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

#FLA2014 - intervista a Cristina Mosca che ha presentato "Loro non mi vedono"

Condividi su:

Edito dalla casa editrice Ianieri, “Loro non mi vedono” (www.lorononmivedono.it) è il nuovo libro della giovane scrittrice Cristina Mosca. Sono dieci storie, che trattano l’invisibilità di chi ha abbandonato il mondo mantenendo, comunque, un contatto. Segnano il passaggio dalla vita alla morte, in un limbo fatto di solitudine e paura.

Credete sia difficile vivere. Voi non sapete quanto sia difficile morire. Non sapete cosa significa guardare ad ogni alba volti liquefatti sui cuscini, circondati da una infinita pena: pupille che tradiscono l'augurio di morire, morire presto. Voi non conoscete il desiderio del perché non prendi me, pur di non vedere, non testimoniare l'arsione pazza che divora le cellule più giovani. Non vedete irrigidirsi le vene lungo le braccia dei padri e dei mariti quando le unghie si incidono nei palmi, quasi a voler trattenere la persona amata come un lenzuolo tirato di notte. Ma la vita, al contrario di quello che ci insegnano, non è aria, non si tiene ferma nei pugni chiusi”.

La scrittrice si racconta in una breve intervista.

Quando hai capito che la scrittura sarebbe stata il tuo futuro?

La scrittura è il mio presente e probabilmente sarà il mio futuro. Posso raccontarti che la prima volta che scrissi fu all’età di dieci anni. Avvenne mentre percorrevo la Teramo - Giulianova, in un buio tardo pomeriggio. Appoggiandomi con la fronte al finestrino, rimasi assorta dalle tante lucette dei paesini lungo il percorso, tantoché, quando rientrai a casa, sentii il bisogno di “fotografare” quello che avevo visto con le parole. In quel momento si è formata in me la necessità di comporre una scrittura intesa come “fotografia”, che mi permettesse di raccontare un qualcosa senza mai dimenticarlo, e allo stesso tempo di poterlo analizzare e riguardare da altri punti di vista. Poi ho continuato a scrivere.

Ho avuto un diario e ho sempre messo da parte storie, poesie, citazioni di altri. Ho riempito agende di momenti che volevo ricordare. I primi racconti che ho scritto nascevano dalla vita reale: a volte raccontavo me stessa, in altre mi ponevo in una particolare angolazione. Ma l’incontro che cambiò il mio percorso avvenne con due sorelle appassionate di scrittura, di qualche anno più grandi di me. Andando al mare assieme, si è creato un circuito dove scrivevamo storie con le stesse protagoniste, che poi eravamo noi stesse. Proprio lì si sono distinte delle trame nella mia testa, si sono plasmati personaggi.

Arriviamo al tuo ultimo libro...

Prima del mio libro, nel mezzo c’è stato un incidente di percorso: il giornalismo. Lo definisco incidente per una determinata ragione: i miei studi sono improntati sull’insegnamento. È da quando avevo quattordici anni che volevo diventare una professoressa di inglese. E poi, durante la stesura della mia tesi di lingue, seppi della notizia che stavano trasferendo la rivista “Abruzzo oggi” a Pescara. Era un quotidiano appena nato a Lanciano e siccome chi mi aveva passato l’informazione sapeva della mia passione per la scrittura, entrai in questo mondo. Il giornalismo mi ha aiutato molto nella mia carriera di scrittrice. È stato comunque uno spartiacque fra lo scrivere per me stessa e lo scrivere per arrivare, e senza dover dimostrare nulla.

Nel tuo ultimo libro attingi molto dal giornalismo...

Sì. Molte delle storie del mio ultimo libro partono da casi di cronaca di cui noi conosciamo soltanto la fine. Notizie che per lo più ci arrivano dai telegiornali e che ci rimangono, con un eco, dentro. Spesso sono storie di solitudine, spesso storie di sfortune immani. Ho sentito il bisogno di restituire un’umanità a queste storie, inventandomi tutto quello che avviene prima della fine, cioè l’unica cosa che conosciamo. Un solo nome, di un fatto di cronaca realmente avvenuto, è individuabile nella storia. Queste storie sono, comunque, degli archetipi: della maternità, della paternità, la rinuncia. Storie simbolo.

E cosa potresti accennare sull’ultima storia? Che poi ha lo stesso nome del libro...

Una cosa che mi piace molto è il secondo sguardo. Quello che viene fuori dal mio libro è un’invisibilità di fondo, invisibile perché non c’è e magari la vogliamo guardare. Per esempio il voler pensare che dietro un gesto ci sia un interesse. A volte, invece, ci impuntiamo su cose che non abbiamo, e che non possiamo avere, dimenticandoci di quelle che abbiamo.

Quali sono state le fonti di ispirazione o i riferimenti che ti hanno aiutato a scrivere questo libro?

Una linfa vitale viene, sicuramente, da Ghost Whispear. Lo adoro. Partiamo dal presupposto che ognuno di noi ha paura dell’irreparabile, del non poter tornare indietro, soprattutto per grandi questioni. Ghost Whispear ti lascia con la speranza di avere una seconda possibilità. Tutti i suoi personaggi sono rimasti sulla terra perché hanno un qualcosa da fare. Ho attinto dei racconti anche da altri film, tutti appartenenti a quel filone horror – paranormale, che io apprezzo. Mi incuriosisce il fatto che essendo prodotti di finzione, quindi usciti da una mente umana e non dalla scienza, tendono a spingersi verso l’immaginario. Proprio come disse un filosofo: se una cosa la puoi immaginare, allora può essere vera.

Come immagini il passaggio dalla vita alla morte?

A me piacerebbe immaginarlo come trasognato, come una cosa cosciente. Per quella speranza di non smettere di essere, rendendoci conto della situazione e mantenendo, comunque, un legame con la terra. Naturalmente con serenità.

Il libro apre la collana “Bartleby”, un personaggio di Melville. Cosa rappresenta per te Bartleby?

Riprendo la frase del libro “Bartleby è il sassolino che inceppa l’ingranaggio, il pulviscolo nell’occhio che ti fa diventar matto”. Di Bartleby mi ha colpito che nonostante non facesse niente, tutti quelli intorno a lui impazzissero proprio perché lui non facesse niente. Mi torna il discorso, a me tanto caro, di quello che non accade che ci riesce a impietrire più di quello che accade. È inevitabile, umano. Sono entrata in contatto con una famiglia che aveva perso un figlio su tre e proprio l’assenza di quell’uno gli andava a riempire la giornata facendo sparire gli altri due. E quando riesci a reagire ti accorgi che la concentrazione deve essere rivolta verso ciò che possiedi. Non è giusto che l’assenza ci fa sparire quello che possiamo avere e che ci è affidato in qualche modo. È un modo per vivere meglio.

Cosa vuoi fare da grande e quali sono i tuoi sogni?

Mi auguro di non smettere mai di fare quello che sto facendo. Quando da piccola giocavo con mia sorella facevo sempre due giochi: nel primo le dettavo facendo la maestra. E sono insegnante di inglese. Nell’altro facevo i timoni e leggevo i telegiornali. E sono giornalista. Spero di continuare a farlo.

Ci vuoi consigliare una lettura? Un qualcosa che tu personalmente rileggi in momenti particolari?

Non solo una. Io mi sono innamorata di diversi autori europei, non italiani. Ottime compagnie sono David Grossmann, Javier Marias, Saramago, di cui ho tutta la collezione. Quando ho bisogno di riempirmi di emozioni leggo Erri De Luca. Quando necessito di messaggi, storie, leggo Dino Buzzati. Il consiglio che posso dare a tutti è quello di non seguire le mode.

Condividi su:

Seguici su Facebook