Il diritto di voto è garantito dall’articolo 48 della Costituzione della Repubblica italiana, che afferma:
«Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».
Gli astenuti, in verità, sono il primo movimento del Paese, in crescita da anni. Il 15 per cento degli italiani è irrimediabilmente disinteressato al voto, nonostante che, come si può leggere, nella Costituzione il voto è considerato un “dovere civico”. Si dibatte da tempo sul senso di queste parole, anche perché è un “dovere” che non prevede sanzioni in caso di violazione. Il voto sembra essere l'unica espressione simbolica delle prassi democratiche. In realtà, nell’ordinamento italiano esistono 4 strumenti di democrazia diretta:
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Petizione ( 50 della Costituzione)
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Legge di iniziativa popolare a voto parlamentare ( 71 della Costituzione)
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Referendum abrogativo ( 75 della Costituzione, il quale è anche il motivo per cui in Italia non ci sarà mai un referendum come quello che ha portato al Brexit)
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Referendum confermativo ( 138 dell Costituzione)
Questa è la situazione in Italia. Tuttavia, sappiamo che l'attuale momento non è eccellente: la “democrazia reale” italiana non è in buono stato di salute ed il voto – dono pregiato della “democrazia”, assieme a tutta una serie di libertà individuali (i diritti costituzionali) – nel corso di oltre settant'anni dalla liberazione dal Fascismo, è stato svuotato di valore, non incide più nelle decisioni e deliberazioni parlamentari e governative.
Una sostanziale continuità storico-sociale (istruttivo, a questo proposito, il recente libro di Federico Rubini, “La maestra e la camorrista”, Mondadori, 2018, secondo il quale l'Italia di oggi è un paese pietrificato, dove la mobilità sociale è bloccata e i discendenti di chi in passato ha costruito grandi fortune sono sempre ancora al vertice, mentre i pronipoti delle classi popolari di un tempo sono sempre fermi sui gradini più bassi) trova la fondamentale manifestazione nell’occupazione del potere politico-amministrativo, dal primo Governo De Gasperi della neonata Repubblica, transitando negli anni ‘90 del Novecento, ai primi decenni del terzo millennio, prima da parte di quello che è stato definito il “Partito – Regime”, la Democrazia Cristiana e nelle dinastie nepotistiche di Sindaci che, in loco, ha insediato per decenni; poi, per un successivo ventennio, da parte del dominante “Partito – Azienda” e dall'avvelenamento procurato dalla manipolazione psichica di massa operata dalle televisioni “commerciali”. Un definitivo knock out della libertà autentica. Tutto ciò, certo, scontatamente, sulla base di legittimazione popolare, considerato il maggior numero di “voti” che elezione dopo elezione premiava gli uomini dello scudo crociato e di Fininvest/Mediaset.
Nei territori abruzzesi, è bene ricordarlo, l’espressione “voto” è stata decodificata dai diversi interlocutori con consapevolezza etimologica: il “voto” sulla scheda elettorale, attribuito nella cabina, angusto spazio che ripara da occhi indiscreti l’esercizio della propria onestà o della pavidità, custodita fino allo spoglio nel segreto dell’urna, è inteso nel senso letterale del termine latino vòtum, voto, preghiera, desiderio, una sorta di offerta ad una divinità di un oggetto, un animale o addirittura un uomo (nell’antichità), per esprimere gratitudine per un bene ricevuto o per impegnare la divinità medesima a concedere qualcosa. Il sottinteso auspicio ha innervato per decenni e innerva tutt'ora la dichiarazione della propria volontà nei procedimenti elettivi che hanno riguardato tutte le generazioni di cittadini elettori abruzzesi. Il corpo elettorale “forte e gentile”, soggiogato dalla mentalità di prostrazione al potere ha accettato il “voto di scambio” come essenza della “politica” in mano ai “partiti”. Così facendo si è dato vita ad un fenomeno, dilagante tra le contrade, che ha tracimato anche nella cosiddetta “seconda Repubblica”, consistente tutt’ora nel chiedere voti (qui il termine rientra nella prosaica semantica del “mercato politico-elettorale”) in cambio di favori o vantaggi individuali e/o familiari e/o nelle “affinità elettive” con il “dispensatore” di turno, più o meno leciti. Non è assimilabile ad una micro-tangentopoli o qualcosa di simile a quanto accade in alcuni territori del Sud del Paese, altrimenti negli Uffici giudiziari territoriali avrebbero molto di più da fare, come, di recente per i nefasti accadimenti del terremoto, è avvenuto a L’Aquila; trattasi piuttosto, di una subalternità popolare al valvassino in auge che usa la “raccolta” di voti per tentare scalate ulteriori nelle Istituzioni della rappresentanza o altrove o per allargare la clientela del proprio studio professionale o della propria azienda, del proprio “commercio”, dopo uno o più “giri di giostra” in Parlamento o in Regione. Questo anomalo fenomeno d’una sorta di “mercato laico / laido delle indulgenze”, costituisce una strategia per stabilizzare il potere locale da parte di un coagulo di interessi che vanno tutelati perpetuando il dominio sulla macchina amministrativa e le sue articolazioni funzionali sul territorio ed impedendo in questa guisa alle comunità locali un definitivo slancio civile. L’élite economico-politica e culturale, mutatis mutandi, ha, fino ai nostri giorni, replicato la gerarchia di comando tipica dell’organizzazione medievale delle vite - un assolutismo che prevede privilegi ed esclusione sociale – mai tramontata. Una conferma è data, ad esempio, dal “personale politico” che “nelle parole” si è posto come competitore, peraltro sempre sconfitto; gli “uomini” che hanno inteso rappresentare un’alternativa, di fatto, sono stati espressione della stessa “cultura” paternalista, clientelare e concessiva, a volte anche autoritaria in grado di “parlare” di diritti, ma mai di fuoriuscire dalla dimensione retorica top down di chi pretende un mandato dal popolo lavoratore, ma che per estrazione e formazione, non appartiene al mondo del lavoro in senso stretto (dal latino “fatica”, opera di mano e poi anche d’ingegno, cose fatte o da farsi operando), bensì a quello delle “libere professioni” che è predisposto a “fare cartello” politico-affaristico.
Tale fenomenologia prevede la persuasione della masse popolari della propria incapacità alla “parola” inibendone una “produzione autonoma”. Non è affatto scontato, del resto, che le cose possano cambiare con qualche candidato insegnante, medico o commerciante; è proprio il meccanismo di selezione e reclutamento dei rappresentanti – in una comunità bloccata al medioevo – che non funziona. In tal modo, non avendone esaustiva consapevolezza, si perpetuano riti e comportamenti non emancipatori della più grande risorsa che l'Abruzzo ha, latente, comunque non utilizzata, silenziosa, a volte passiva e connivente, a volte brutalizzata e soffocata, ma, nei suoi strati più reconditi, capace di resistenza e di rivolta quantomeno morale: la società civile.
Il voto - un diritto acquisito da tempo – è diventato tutt'altro che una libera espressione durante un’elezione. Da dovere utile si è trasformato in irresponsabile connivenza.
È evidente che la “democrazia” dovrà percorrere un lungo cammino – ben oltre il 4 Marzo 2018 - prima di ritrovare un significato coinvolgente, soprattutto i diciotto-venticinquenni.