Anche gli ultimi corpi sono stati estratti dalle macerie e le fievoli speranze di salvezza, suggerite più dal cuore che dalla mente, possono lasciare spazio al dolore lacerante di chi dovrà piangere la scomparsa terrena dei loro cari. La vicenda dell’Hotel Rigopiano non potrà essere dimenticata nell’arco di una sola generazione e la sciagurata data del 18 gennaio 2017 si accompagnerà per sempre, nell’animo del popolo abruzzese, a quella del 6 aprile 2009, il giorno dell’infausto terremoto aquilano. Perfino chi vi scrive, ha perso un collega, un amico, sotto quell’immensa valanga di neve e detriti, ma questo lutto, doverosamente per chi è scomparso e per i loro parenti, non deve farci dimenticare i nostri doveri, che poi sono anche diritti, di tracciare un segno rispetto alle cronache di questi giorni, anche per confortare e sostenere gli inquirenti nel loro lavoro, affinché tutte, ma davvero tutte, le verità possano venire a galla e i colpevoli, possibilmente tutti, ma proprio tutti, di quest’omicidio plurimo, siano consegnati alla giustizia. Non certo per consumare inutili desideri di vendetta, si dovrà giungere quanto prima alle debite conclusioni, ma esclusivamente per evitare che altre stragi, figlie di una gestione malsana della burocrazia, possano ancora accadere.
Raccontare i fatti, quando essi rappresentano il resoconto di un tragico finale, non è mai un argomento semplice da tradurre in parole, si rischia di cadere nell’ovvio, nel già detto, peggio ancora di tralasciare qualche particolare rilevante o di urtare le sensibilità del lettore. Sono ostacoli certo, sormontabili, però, se accompagnati dalla buona fede di chi si pone (il giornalista) come umile cassa di risonanza nei confronti dei fruitori, che non vanno indottrinati, ma solo accompagnati e messi nelle giuste condizioni di recepire e prendere una conseguente posizione rispetto a quanto accaduto. Ecco, non importa che tutti siano concordi, ma sarà fondamentale che la slavina di Farindola non smetta mai di essere raccontata, discussa e analizzata, fin quando diventerà un monumento di pensiero, un’entità parlante che farà costantemente riflettere l’Uomo e le sue debolezze, che troppo spesso si trasformano nelle inopportune forme di vanità che la Natura mal sopporta e, ogni tanto, purtroppo, punisce.
Quell’Hotel, voluto fortissimamente dal suo ideatore, anch’egli rimasto vittima della tragedia, che ne fece la principale sua ragione di vita, oggi già lo sappiamo, non sarebbe dovuto esistere. Non in quel contesto almeno, senza apparenti difese e vie di fuga nei confronti di quell’indomita montagna che da sempre ha mietuto vittime, finora poche per fortuna, al suo altare. Roberto Del Rosso ha pagato in prima persona il prezzo della sua ostinata determinazione, ma gli ospiti, il personale e i loro cari, verso quali Dèi dovrebbero rivolgere le giuste lamentele per il crudele destino cui sono corsi incontro? Un uomo che aveva una visione, spinto dal suo amore per quei luoghi splendidi e selvaggi, dentro i quali desiderava condurre quante più persone possibili. Le domande che la magistratura si sta già ponendo, sono riconducibili proprio a quel sogno: sono state tutte lecite le strade intraprese per renderlo concreto? Ne valeva davvero la pena? Le risposte a questi dubbi non dovrebbero tardare ad arrivare, il lavoro della Procura, in queste ore febbrili, sembra determinato e accurato, presto scopriremo chi ha sbagliato e perché, quindi non è di questo che dovremmo occuparci. Lo faremo, invece, ma senza entrare nel merito delle questioni giuridiche, non ci compete, piuttosto è sulle implicazioni di carattere morale che sentiamo la necessità di approfondire l’accaduto.
Nel luglio del 1969, quando tre indomiti astronauti, Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins, a bordo di quella che oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, potremmo dipingerealla stregua di una scatola metallica, piuttosto che di un’astronave, prestarono le loro vite affinché si realizzasse il più grande sogno che l’umanità abbia mai potuto bramare, in termini concreti, raggiungere fisicamente la Luna e, soprattutto, tornare indietro per poterlo raccontare. Erano perfettamente coscienti dei rischi cui andavano incontro, andò tutto bene, ma solo a distanza di molti anni, il Mondo, all’epoca ingenuo e non globalizzato, scoprì quanto fossero minime, fin dalla partenza, le percentuali di riuscita dell’impresa. Si trattava di personale militare, però, ben addestrato, non c’erano passeggeri a bordo e l’intero genere umano che ne condivise il sogno restò con i piedi ben piantati a terra, senza correre rischi, che non fossero quelli di rimanere incollati di fronte a uno schermo televisivo, in attesa di esultare. L’interno dell’Hotel Rigopiano, il personale “razzo” che Roberto Del Rosso aveva costruito per raggiungere la sua Luna, al contrario dell’Apollo 11, era carico di ospiti, che per di più non avevano la benché minima consapevolezza di rischiare il mancato ritorno a casa.
Su queste basi si determinano la rabbia e la frustrazione per la morte di ventinove vite umane, che mai avrebbero potuto immaginare di poter perdere così ferocemente la loro esistenza, imprigionate all’interno di un sogno, da cui non sono riuscite a fuggire, dopo aver costatato come si fosse trasformato nel peggiore degli incubi. A nulla serve spiegare che si è trattata di una concomitanza di eventi eccezionali e non preventivabili, dapprima perché molti geologi, alcuni nel recente passato, tanti altri oggi, a disastro ormai avvenuto, ci hanno spiegato quanto fosse potenzialmente rischioso costruire in quel luogo, poi perché sono proprio gli avvenimenti non convenzionali che dimostrano l’importanza della prevenzione.
Inutile elencare le numerosissime mancanze, gli errori e alcune sconsiderate prese di posizione che hanno impedito a quelle persone di abbandonare per tempo la mortale trappola che, nelle immagini dei primi soccorritori, ci è da subito apparsa funesta. E’ inutile perché le cronache dei giorni scorsi ne sono fin troppo ricche, con particolari che indignano senza attenuanti. Alcune domande, però, le possiamo porre. Possibile che una struttura così isolata, a 1200 metri di altitudine, non avesse mezzi propri ed efficienti, a garanzia di un’eventuale e immediata evacuazione? Ne erano consapevoli i turisti? Sapevano davvero a cosa stessero andando incontro, quando, telefonando prima della partenza, hanno avuto rassicurazioni in merito alla possibilità di confermare il soggiorno? Sono state spesso tirate in ballo, nel corso della settimana appena trascorsa, le sentenze nei confronti di alcuni ex amministratori farindolesi, tutti assolti perché “i fatti non sussistevano”, ma qualcuno si è preso la briga di andarsi a leggere i fatti processuali? Non saranno le prescrizioni ad impedirlo, questo è certo. Già due anni or sono la stessa struttura rimase isolata a causa di un’abbondante nevicata, peccato l’esperienza non sia servita, eppure la Natura aveva dato il preavviso …
Un cenno, per il momento breve, ma torneremo prossimamente a occuparcene, sui soccorsi. Oltre alla mancanza di mezzi idonei, è stata rilevata anche quella delle inadeguate divise in dotazione ai Vigili del Fuoco, fatta eccezione per quelli dei Corpi Speciali. Molti di loro sono stati costretti a muoversi fra la neve e il freddo con le medesime uniformi utilizzate per spegnere gli incendi, costringendoli a spostarsi goffamente e impedendo loro di operare nel miglior modo possibile. Oltre a ciò la carenza dei rifornimenti, assolutamente inappropriati a ritemprare le energie in un ambiente così ostile. Ogni funzionario dello Stato è ben consapevole di quanto stiano pesando, in termini di risultati, i cosiddetti “tagli” che una politica incosciente sta ponendo in essere, ormai da anni, in maniera spesso indiscriminata. Ciò non impedisce di compiere comunque il proprio dovere, ma la distanza che i nostri governanti hanno messo in atto, fra loro, le elite del potere e i comuni cittadini, è chiaramente divenuta insostenibile. Gli effetti di questa disequità sociale, anche a Farindola sono stati osservati con prepotenza e molte vite, forse, si sarebbero potute salvare, se le priorità di questo strano Paese non fossero le Banche e gli accordi europei da rispettare.
E’ giunto il momento di cambiare, ora o mai più, lo dobbiamo alle ventinove vittime e a tutti i loro affetti. Se episodi simili non avranno più motivo di accadere a causa di una cattiva gestione della cosa pubblica, allora non saranno morti invano, diversamente, è scontato rilevarlo, ma inevitabile, sarà come ucciderli di nuovo.