La pubblicazione del libro "L'esilio della cultura" (Edizioni VARIO, Pescara, 2015, p. 56), progetto di Marco Tornar che coraggiosamente, prima di morire, ha ritenuto inevitabile affrontare il tema dell'allontanamento della civiltà contemporanea dalla sapienza e dal bello, apre una prospettiva di analisi e, allo stesso tempo, rappresenta un auspicio. Il volume, a nostro giudizio, si presenta come un necessario aggiornamento dell'opera di Horkheimer, del 1947, intitolata "Eclisse della ragione", veicola un grido d'attenzione per l'evanescenza alla quale sono condannate le ricche e polifoniche produzioni culturali, poiché estromesse dai luoghi della comunicazione sociale che diffondono inedia e propagano omologazione.
Il panorama che "L'esilio della cultura" annuncia e denuncia è la desertificazione delle forme di vita, ricondotte alla scheletrica impalcatura della produzione e riproduzione dell'organizzazione economico-sociale; entro tale pianificazione esistenziale la cultura è diventata un insieme di fatti prigionieri d'una sequenza irreversibile e unidirezionalmente finalizzata, nel senso letterale di entità ormai compiute e separate da quel motore eccentrico che è il sistema umano dei valori. La cultura si mostra attualmente subalterna poiché non si è resa indipendente della mercificazione economico-politica dell'esistenza propria del “secolo breve”. Da questa impostazione, s'intuisce il perché Tornar ha pensato di far stampare, nella pagina successiva alla Prefazione, l'icona ravennate della tomba di Dante ed intitolare il suo scritto: "Le ceneri di Dante". Il vaticinio riguarda, viceversa, il compito che l'intelligencija nuovamente può svolgere supplendo ad una fragorosa assenza di quella cultura filosofico-scientifica e tecnico-politica, come amalgama di teoria e prassi, che ha per oggetto la costituzione, l'organizzazione, l'amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica, che nella migliore delle ipotesi, è complice di machiavelliche degenerazioni. Nessun aspetto della realtà può essere compreso come definitivo, certo, ma l'arte, in tutte le sue manifestazioni creative e di generosa anticipatrice di pubblica sensibilità, rifugge dall'illusione positivistica, scientista, mercantile.
Nel saggio "Teoria tradizionale e teoria critica" (1937), Horkheimer sosteneva che i depositari del sapere sono inseriti nell'apparato sociale e contribuiscono alla continua riproduzione di esso. Il livello raggiunto dalla divisione sociale del lavoro conduce infatti ad una separazione fra teoria e prassi e ad attribuire al sapere una funzione sociale. Su questa base si costituiscono le forme tradizionali di teoria, le quali tendono soltanto a descrivere fatti e, per questa strada, a giustificare lo stato di cose esistente, mentre nei casi in cui sono orientate all'azione, ciò avviene soltanto in vista del dominio tecnologico della natura e degli uomini.